lunedì 25 novembre 2013

ESERCIZIO ABUSIVO DI PROFESSIONE

Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 21-05-2012) 16-07-2012, n. 28480
Integra il delitto di esercizio abusivo della professione lo svolgimento di attività infermieristiche (nella specie, presso un centro di cura per anziani) da parte di un infermiere generico senza la presenza in turno di un infermiere professionale o di un medico.
Svolgimento del processo

1. G.A.M. fu condannata dal Tribunale di Genova alla pena (condonata) di tre mesi di reclusione per il reato di cui agli artt. 81 cpv. e 348 c.p., per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, esercitato abusivamente presso la struttura per anziana (OMISSIS), l'attività di infermiera professionale, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato.

2. La Corte d'appello ha confermato la condanna, disponendone la non menzione sul certificato del casellario giudiziale ex art. 175 c.p..

3. Ricorre per cassazione il difensore dell'imputata, deducendo:

- vizi di motivazione della sentenza e inosservanza o erronea applicazione della legge penale, con riferimento all'art. 348 c.p. e D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225, art. 6, in ordine alla ritenuta responsabilità penale;

- vizio di motivazione sul diniego di circostanze attenuanti generiche.

Motivi della decisione

1. Il ricorso, al limite dell'inammissibilità per la ripetitività di deduzioni già esaminate e rigettate dalla Corte d'appello, non merita accoglimento.

2. I dedotti vizi di motivazione - relativi: all'apprezzamento della testimonianza del teste R.; alla ritenuta assenza di personale sanitario diverso dall'imputata durante i turni di notte; alla diretta effettuazione da parte della G. degli atti propri dell'infermiere professionale, dalla stessa imputata annotati nel quaderno dei turni infermieristici - si risolvono in censure di fatto alla valutazione degli elementi probatori operata dai giudici del merito, inammissibili sia a norma dell'art. 606 c.p.p., comma 3, sia ai sensi del cit. articolo, comma 1, lett. e), giacchè la predetta valutazione è stata compiutamente resa in sentenza con motivazione giuridicamente corretta ed indenne dai vizi logici.

2.1. All'espressa motivazione della sentenza d'appello va aggiunto quanto evidenziato dal primo giudice (la cui motivazione è stata richiamata dalla sentenza impugnata) in ordine alla condotta tenuta dall'imputata al fine di svolgere presso la struttura "(OMISSIS)" l'attività di infermiere professionale, pur essendo priva del relativo diploma e dell'iscrizione all'albo professionale.

L'assoluzione, pronunciata dal Tribunale dal reato di cui agli artt. 477 e 482 c.p. (contestato per avere contraffatto le certificazioni amministrative attestanti il conseguimento del diploma di infermiere professionale e l'iscrizione all'albo), è derivata dall'accertata produzione di copie fotostatiche mancanti della dichiarazione di conformità all'originale, ma il giudice di primo grado non ha mancato di puntualizzare che all'imputata andava contestato e addebitato un fatto diverso per essersi accreditata come persona titolare di quel diploma al fine di trarre in inganno il datore di lavoro.

L'accertamento del compimento di atti propri della professione infermieristica - tra cui anche compiti esulanti dall'elenco del D.P.R. n. 225 del 1974, art. 6, come il posizionamento di flebo (che non appare riconducibile alla mera sorveglianza di flebodisi) e il lavaggio (che altro non significa se non lavanda vescicale) - è avvalorata dall'assoluzione "tecnica" dal reato di falso, la cui motivazione evidenzia la condotta dell'imputata volta ad accreditarsi come infermiere professionale, ciò che ovviamente esimeva la direzione della "(OMISSIS)" dalla predisposizione di turni di lavoro con la contemporanea presenza di altro infermiere professionale.

3. Il ritenuto e motivato accertamento dei giudici sugli atti propri dell'infermiere professionale, compiuti e annotati dell'imputata, rendono irrilevanti le considerazioni espresse in ricorso con il quinto motivo, il quale deduce "violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) con riferimento all'art. 348 c.p. e D.P.R. n. 225 del 1974, art. 6" ed elenca le mansioni che l'infermiere generico poteva svolgere, in forza del predetto art. 6, non abrogato dalla L. 26 febbraio 1999, n. 42, recante disposizioni in materia di professioni sanitarie.

3.1. In proposito, va precisato che la normativa intervenuta nell'ultima decade del secolo scorso (D.Lgs. dicembre 1992, n. 502, art. 6, comma 3; D.M. 14 settembre 1994, n. 739; L. 26 febbraio 1999, n. 42, art. 1; L. 10 agosto 2000, n. 251; D.M. 29 marzo 2001; DD.MM. 2 aprile 2001) ha completamente innovato fa disciplina della professione infermieristica, definendo gli specifici requisiti necessari per il suo esercizio non abusivo, introducendo la necessità del diploma universitario, realizzando un accrescimento della preparazione tecnica e professionale, eliminando la pregressa distinzione tra infermiere generico e infermiere professionale, sino a delineare una moderna e qualificata professione infermieristica.

Le mansioni "assistenziali" già attribuite dal sopravvissuto D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225, art. 6, all'infermiere generico (e ricomprese, d'altronde, anche nel più largo elenco relativo all'infermiere professionale di cui all'abrogato art. 2 dello stesso decreto presidenziale) sono da ricondurre nel più ampio quadro delle funzioni spettanti all'unica figura di infermiere professionista oggi esistente, come definite dal citato D.M. n. 739 del 1994, art. 1 (e successivamente perfezionate dalla legislazione più recente, sino alla L. 1 febbraio 2006, n. 43, art. 6, intervenuta dopo i fatti addebitati all'imputata).

Ne deriva che l'eventuale acquisizione della autonoma qualifica di infermiere generico, in forza della disciplina anteriore alla modifica del quadro normativo, con relativa possibile conservazione della stessa ad personam, andava specificamente dedotta e comprovata dall'interessata.

3.2. In ogni caso, anche a prescindere dalle considerazioni appena svolte, mette conto puntualizzare che il D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225, art. 6 (recante modifiche al R.D. 2 maggio 1940, n. 1310, sulle mansioni degli infermieri professionali e infermieri generici) all'elenco delle mansioni che potevano essere espletate dall'infermiere generico si premurava di premettere che "l'infermiere generico coadiuva l'infermiere professionale in tutte le sue attività e su prescrizione del medico provvede direttamente alle seguenti operazioni", ribadendo nella sostanza la previsione del R.D. n. 1310 del 1940, art. 4, secondo cui "l'attività degli infermieri generici, deve essere limitata a determinate mansioni, per prescrizione del medico, nell'ambito ospedaliero, sotto la responsabilità dell'infermiera professionale".

Tali previsioni, escludendo la possibilità che un infermiere generico potesse prestare le sue attività senza la presenza in turno di un infermiere professionale e di un medico, forniscono ulteriore conferma che - in assenza di medico e di altro (vero) infermiere professionale - l'imputata svolgeva abusivamente attività di infermiera professionale.

4. Infondata è la censura relativa al diniego delle circostanze attenuanti generiche, adeguatamente motivato dalla Corte territoriale con riferimento alla gravità dei fatti, alla personalità dell'imputata e alla mancanza di ogni valido elemento a sostegno della richiesta.

5. Pur dovendosi rigettare tutti i motivi di ricorso, la sentenza impugnata va annullata limitatamente agli episodi delittuosi che risultano ormai prescritti, ossia tutti quelli commessi dal (OMISSIS), maturandosi oggi il periodo di sette anni e mezzo, che costituisce, a norma dell'art. 157 c.p., il termine massimo di prescrizione per il delitto di cui all'art. 348 c.p., tenuto conto del criterio di calcolo utilizzato dai giudici di merito, la pena (condonata) va rideterminata in due mesi e un giorno di reclusione.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente ai fatti commessi sino al (OMISSIS) perchè i reati sono estinti per prescrizione. Rigetta nel resto il ricorso e ridetermina la pena in mesi due e giorni uno di reclusione.

Così deciso in Roma, il 21 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2012


L'infermiere che, indossando scarpe aperte, è civilmente responsabile del danno provocato inciampando

Trib. Enna, 25/07/2012
L'autore di un fatto illecito, che abbia agito in stato di necessità, è tenuto a corrispondere l'indennizzo al danneggiato se ha posto in essere una condotta colposa (nel caso di specie, un infermiere che, indossando scarpe aperte, sia accorso per assistere un ricoverato è civilmente responsabile del danno provocato ad un terzo che egli, inciampando, abbia investito).

Infermiere condannato per omicidio: sapeva della mattonella divelta.

CORTE DI CASSAZIONE, Sezione IV pen., sentenza n. 16260 del 6 marzo 2013 
Risponde di omicidio colposo l'infermiere che, pur essendo a conoscenza delle generali cattive condizioni manutentive dell'ospedale, omette di osservare i doveri di attenzione nell'adempiere al compito di trasporto di una paziente, causandone la caduta e successivamente il decesso .
RITENUTO IN FATTO
1. L.G. è stato ritenuto responsabile per il delitto di omicidio colposo in danno di B.G. dal Tribunale di Napoli in quanto, essendo incaricato del trasporto a mezzo


ambulanza della paziente da un reparto ad un altro dell'ospedale, non si era avveduto della presenza nella pavimentazione del nosocomio di una mattonella divelta e, movimentando la barella, ne aveva determinato l'incastro di una delle ruote nel terreno sconnesso, con il conseguente repentino e violento sbalzo della barella, suo ribaltamento e caduta della paziente, la quale decedeva per il grave trauma cranico encefalico riportato.
2. La Corte d'Appello di Napoli confermava l'impugnata sentenza e concedeva le attenuanti generiche all'imputato.
3. Avverso la sentenza propone ricorso l'imputato;
L. G. con unico motivo deduce l'illogicità delle due argomentazioni circa l'addebito di responsabilità relative alla non adeguata illuminazione e alle modalità di conduzione della lettiga ed in particolare osserva che le condizioni di luce non adeguate erano state contestate un ora dopo l'incidente e, quindi, la circostanza difettava di adeguato supporto probatorio mentre le modalità di conduzione mediante l'atto del tirare, in luogo che di spingere, erano state considerate erroneamente imprudenti giacché le stesse rispondevano piuttosto ad una cautela in relazione alla cronica presenza di un dislivello tra il piano di calpestio e quello dell'ascensore. Sotto altro profilo, rileva che al ricorrente non poteva richiedersi condotta diversa da quella tenuta in concreto, avendo egli agito confidando sul rispetto da parte di altri soggetti, garanti della sicurezza, dell'obbligo di rendere privo di rischi l'ambiente di lavoro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il motivo è inammissibile poiché manifestamente infondato. Con riferimento al primo profilo si rileva che gli argomenti addotti sono privi di decisività poiché, prescindendo dalla fondatezza delle argomentazioni motivazionali censurate, la decisione è adeguatamente sorretta dalla fondamentale argomentazione giustificativa concernente la grave inosservanza
atta ad integrare di per sé la colpa, del dovere di attenzione nell'adempiere al compito di trasporto della paziente, pur risultando da parte dell'agente la conoscenza delle generali cattive condizioni manutentive dell'ospedale. Quanto al secondo profilo, la manifesta infondatezza si evidenzia ove si consideri che non può l'agente ritenersi esonerato dalla particolare attenzione richiestagli in relazione ai compiti affidatigli, in ragione dell'obbligo di manutenzione strutturale dell'immobile gravante su altri soggetti.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese in favore della parte civile.

Reato per l’infermiera che non lava i pazienti. E' omissione di atti di ufficio

Cass. pen. Sez. VI, (ud. 27-09-2006) 29-11-2006, n. 39486
Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Caltanissetta confermava la sentenza in data 9 maggio 2003 del Tribunale di Gela, appellata da C.M., condannata, con le attenuanti generiche, alla pena di mesi sei di reclusione, oltre alla interdizione dai pubblici uffici per un anno e al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in quanto responsabile del reato di cui all'art. 328 c.p., perché, nella qualità di infermiera generica in servizio presso l'Ospedale di Mazzarino, indebitamente rifiutava di effettuare le operazioni di pulizia del degente B.G., sottoposto a un intervento di resezione colica, il cui letto e le parti intime erano imbrattate con le feci fuoriuscite dalla sacca di contenimento delle stesse, atto che per ragioni di igiene e di sanità doveva essere compiuto senza ritardo, accampando la scusa di provare vergogna per la differenza di sesso e allontanandosi dal reparto per circa mezz'ora (in (OMISSIS), il (OMISSIS)).
Osservava la Corte di appello che i fatti risultavano provati attraverso le testimonianze rese dal genero della persona offesa D.L.C. e di quelle di Bo.Gi. e F.L., che si trovavano nel giorno del fatto ricoverati nella stessa stanza del B..
Ricorre personalmente per cassazione l'imputata, che deduce con un primo motivo la errata interpretazione delD.P.R. n. 225 del 1974, art. 6, in relazione all'art. 328 c.p. La predetta norma stabilisce che l'infermiere generico coadiuva l'infermiere professionale in tutte le sue attività e provvede direttamente a varie mansioni, tra cui la raccolta degli escreti dei pazienti, previa prescrizione del medico.
Nella specie la situazione clinica del B. era piuttosto delicata, dato che il medesimo aveva subito un intervento chirurgico di laparotomia esplorativa e resezione colica, e nella specie si trattava di effettuare il riposizionamento della sacca di raccolta degli escreti, proprio a seguito di un errato posizionamento della stessa ad opera di un infermiere professionale.
Non rileva che, stando alla sentenza impugnata, in quel turno non erano presenti infermieri professionali, perché ciò poteva dipendere da una dimenticanza di chi aveva predisposto i turni di servizio e in ogni caso non valeva a sovvertire le regole sulle mansioni attribuite agli infermieri generici.
Inoltre in quel momento l'imputata era impegnata nell'attività di distribuzione del vitto, e il ritardo addebitatole è consistito in soli 30 minuti. Nessuna specifica valutazione sulla urgenza era stata effettuata dal giudice di appello.
Con un secondo motivo, si denuncia la violazione dell'art. 328 c.p. in relazione all'art. 47 c.p., comma 3: anche ammettendo che l'imputata avesse errato nel ritenere non urgente l'atto, avrebbe dovuto essere affermato che, in considerazione del breve ritardo e della mansione nella quale la C. era in quel momento impegnata, si era nella specie trattato di un errore scusabile.
Motivi della decisione

Il ricorso appare infondato.
Va osservato in primo luogo che, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l'intervento richiesto alla infermiera C.M. era stato sollecitato da D.L.C., genero del degente B.G., perché la stessa provvedesse a operazioni di pulizia sul corpo del congiunto, dato che le parti intime di questo e lo stesso letto erano imbrattati con feci fuoriuscite dalla sacca di contenimento posizionata dopo una operazione di chirurgia addominale.
La C. aveva rifiutato di provvedere a quanto richiesto, affermando che aveva vergogna di pulire le parti intime di una persona di sesso maschile e si era allontanata dal reparto per circa mezz'ora.
E' su questa sola condotta che cade l'imputazione e si fonda l'affermazione di responsabilità penale. I giudici di merito hanno infatti osservato che il rifiuto dell'imputata di provvedere prontamente alle operazioni di pulizia delle parti intime del paziente in ragione della differenza di sesso era palesemente ingiustificato, e che tale incombenza rivestiva carattere di urgenza per evidenti ragioni di igiene e sanità.
E' vero che nella sentenza impugnata si mette in rilievo che, successivamente a tale rifiuto, dopo che il D.L. aveva deciso di provvedere lui stesso alla pulizia del suocero e, riscontrando che la fuoriuscita degli escreti dalla sacca derivava da un non corretto posizionamento della stessa, aveva inutilmente suonato il campanello per circa venti minuti, per sollecitare nuovamente l'intervento del personale infermieristico, senza ottenere alcun risultato; ma la ritenuta colpevolezza dell'imputata non attiene a questo ulteriore sviluppo dei fatti.
Risulta dunque incongrua, rispetto al decisum, l'osservazione della ricorrente secondo cui l'operazione di riposizionamento della sacca non rientrava nelle sue mansioni essendo di esclusiva pertinenza di un medico o di un infermiere professionale; e ciò a prescindere dalla considerazione che anche quest'ultima era una operazione di normale routine e di facilissima esecuzione, come dichiarato dal teste dott. C.G., direttore medico del predetto ospedale.
Non è dubbio, poi, che le operazioni di pulizia del paziente rientrano nelle tipiche mansioni degli infermieri generici.
Infatti, a norma del D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225, art. 6, l'infermiere generico, su prescrizione del medico, provvede direttamente, tra l'altro, alle operazioni di pulizia del paziente (n. 1) e alla raccolta degli escreti (n. 2).
La ricorrente obietta che nella specie non vi era stata alcuna prescrizione specifica del medico circa la pulizia del paziente.
Ma la disposizione ora citata non implica, né letteralmente né logicamente, che la prescrizione del medico avvenga necessariamente di volta in volta per ogni intervento da effettuarsi sui pazienti, ben potendo essa essere impartita in via generale e sulla base di turni di servizio, come nella specie verificatosi. infatti, come messo in risalto dai giudici di merito, il dott. C. ha dichiarato che le operazioni di pulizia dei pazienti, di norma svolte in collaborazione tra l'infermiere professionale e l'infermiere generico, dovevano in quella circostanza, stante l'assenza in reparto di un infermiere professionale, essere svolte dal solo infermiere generico addetto al reparto, sulla base di quanto previsto dai turni di servizio; e che solo con riferimento a interventi di tipo terapeutico occorreva una specifica prescrizione del medico.
Come già osservato dalla Corte di appello, la circostanza addotta dall'imputata, l'essere in quel momento essa impegnata nell'attività di distribuzione del vitto, non era affatto ostativa alla immediata effettuazione dell'operazione di pulizia del paziente, che rivestiva un carattere di urgenza per evidenti ragioni igienico-sanitarie, trattandosi di un paziente da poco operato all'addome, imbrattato di escreti fecali.
Vale del resto la considerazione espressa al riguardo dal dott. C., secondo cui la predetta incombenza aveva priorità rispetto alla distribuzione del vitto, che ben poteva essere sospesa per i pochi minuti necessari per la pulizia del paziente, ed essere subito dopo ripresa con ogni garanzia igienica.
Quanto alla doglianza circa la mancata considerazione dell'errore scusabile in punto di urgenza dell'atto, essa appare, oltre che generica, manifestamente infondata, sia perché il rifiuto espresso dall'imputata non atteneva a questo aspetto, ma all'inammissibile pretesa inconciliabilità tra la prestazione richiesta e la differenza di sesso, sia perché il riconoscimento del carattere di urgenza dell'atto implicava una valutazione strettamente collegata alle ordinarie competenze professionali della C., che aveva quindi tutti i necessari elementi di cognizione per non cadere in un simile errore.
Al rigetto del ricorso consegue a norma dell'art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 27 settembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2006

Danni da sangue infetto

Cass. civ. Sez. Unite, 11-01-2008, n. 581
Svolgimento del processo

Con atto notificato il 27.10.1999, 223 attori convenivano davanti al tribunale di Roma il Ministero della Sanità, chiedendone la condanna al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, ai sensi degli artt. 2043, 2049 e 2050 c.c., per non avere evitato che agli attori o ai loro danti causa, che necessitavano per patologie congenite di continue trasfusioni, venissero somministrati prodotti emoderivati senza i necessari controlli, per cui questi contraevano varie affezioni, quali HIV, HBV ed HCV, alle quali a distanza di alcuni anni in alcuni casi seguiva la morte.

Intervenivano in giudizio anche altri soggetti che assumevano anch'essi di aver contratto il contagio e di avere diritto al risarcimento del danno.

Il Tribunale accoglieva la domanda di condanna generica al risarcimento del danno.

L'appello proposto dal Ministero veniva rigettato dalla corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 12.1.2004.

Riteneva la corte territoriale che l'eccezione di prescrizione era infondata, in quanto a norma dell'art. 2935 c.c., il diritto può essere esercitato solo allorchè il titolare abbia raggiunto la piena cognizione dell'esistenza e del fondamento del medesimo, ed individuando il dies a quo nel momento del rilascio delle certificazioni relative all'indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, da parte delle Commissioni medico ospedaliere. Riteneva la corte di merito che il termine di prescrizione era decennale, trattandosi di fattispecie di reati di epidemia colposa, lesioni colpose plurime e di omicidio colposo. Nel merito riteneva la corte che, trattandosi di accertamento del solo an debeatur non era necessario valutare la prescrizione in relazione alle singole posizioni, attenendo tale valutazione al successivo giudizio di liquidazione dei danni, mentre risultava accertata la riconducibilità degli eventi dannosi alla responsabilità dell'amministrazione per essere gli stessi stati causati da emotrasfusione o assunzione di emoderivati con sangue infetto, come riconosciuto dallo stesso Ministero che aveva erogato l'indennità di cui alla L. n. 210 del 1992.

Riteneva poi il giudice di appello che l'Amministrazione era in possesso delle fin dagli anni '70 di elementi di studio e di ricerca tali da consentire di individuare almeno il virus dell'epatite B e quindi da rendere obbligatoria l'adozione di misure di prevenzione.

La corte riconosceva, inoltre, agli attori anche il diritto al risarcimento del danno morale.

Nelle more interveniva una transazione tra il Ministero e gran parte degli attori.

Il Ministero della salute impugnava la sentenza della corte di appello nei confronti dei soggetti con cui non aveva transatto la lite e cioè: A.C., + ALTRI OMESSI I predetti intimati, ad eccezione degli ultimi tre, resistevano con controricorso; essi hanno presentato anche memoria.

Motivi della decisione

1.1. La causa è stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: al nesso causale in tema di responsabilità civile, segnatamente da condotta omissiva; al dies a quo della prescrizione per il risarcimento dei danni lungolatenti; alla responsabilità del Ministero della Salute per danni "da sangue infetto". 1.2. Preliminarmente va dichiarato inammissibile il ricorso nei confronti di A.C., per sopravvenuta carenza di interesse.

Infatti come risulta dalla documentazione prodotta da quest'ultima, tra lei ed il Ministero della Salute è intervenuta una transazione, la quale, comportando la cessazione della materia del contendere, fa venire meno l'interesse del ricorrente alla decisione del ricorso nei confronti dell' A..

1.3. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2934, 2935, 2943, 2946, 2947 c.c., art. 112 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, a norma dell'art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.

Il ricorrente assume che erratamente, ai fini della prescrizione, nel corso del giudizio di merito non sono state vagliate autonomamente le varie posizioni degli attori, risalenti a diversi momenti, giustificando ciò con il rilievo che nella fattispecie si trattava di domanda di condanna generica al risarcimento del danno.

Assume poi che i fatti nella maggior parte dei casi si collocavano tra il 1978 ed il 1988 e che quindi al momento della proposizione della domanda erano maturate sia la prescrizione decennale che quella quinquennale, le quali andavano valutate con riferimento al verificarsi del danno.

Secondo il ricorrente in ogni caso il termine di prescrizione è quinquennale e non decennale, sia perchè il convenuto nel giudizio risarcitorio non coincide con l'autore dell'illecito penale, sia perchè manca l'esistenza dell'elemento soggettivo del reato, sia perchè nella fattispecie sussistevano cause di giustificazione, quali la scriminante dell'attività medico-chirurgica e quella del consenso dell'avente diritto.

2.1. Il motivo è solo in parte fondato.

Esso è fondato nella parte in cui censura l'impugnata sentenza, allorchè questa ritiene che la posizione dei singoli attori, ai fini dell'eccepita prescrizione, non fosse rilevante nella fattispecie, trattandosi di accertamento del solo an debeatur, mentre solo nel successivo giudizio di quantificazione del danno tale singole posizioni andavano vagliate ai fini della prescrizione.

Infatti non rileva che, nella specie, fosse stata chiesta una condanna in forma generica, dal momento che anche questo tipo di statuizione conforma autoritativamente i contenuti sostanziali del rapporto obbligatorio, imponendo all'obbligato di eseguire una prestazione e rende il vincitore titolare di actio iudicati (cfr. Cass. n. 18825 del 2002; n. 3727 del 2000), cosicchè la parte convenuta ha l'onere di eccepire tempestivamente la prescrizione, essendole precluso di farlo nel giudizio sul quantum (cfr. Cass. n. 3243 del 1985; n. 5211 del 1980).

Pertanto anche a fronte di una domanda di condanna in forma generica, il convenuto che assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto ha l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza (cfr. Cass., 23/04/2004, n. 7734; Cass. 27/05/2005, n. 11318). Ciò comporta che il giudice di primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del diritto azionato (Cass. 04/04/1992, n. 4151; Cass. 1/08/1987, n. 6651).

Solo cosi impostata e risolta la questione si intende il consequenziale principio secondo cui la sentenza di condanna generica passata in giudicato determina l'assoggettamento dell'azione diretta alla liquidazione al termine prescrizionale di cui all'art. 2953 c.c., nonchè la produzione degli effetti interruttivi della prescrizione nei confronti di coloro che hanno esercitato le azioni concluse con la condanna generica (Cass. 15/09/1995, n. 9771; Cass. 13/12/2002, n. 17825; Cass. 04/04/2001, 4966).

2.2. Fondata è anche la censura secondo cui nella fattispecie non è ipotizzabile un reato di epidemia colposa o lesioni colpose plurime.

Per poter usufruire di un termine più lungo di prescrizione rispetto a quello quinquennale di cui all'art. 2947 c.c., comma 1, sarebbe necessario ritenere ipotizzabili i reati di lesioni colpose plurime o di epidemia colposa, o omicidio colposo, per i quali i termini prescrizionali erano di dieci anni.

Sebbene il regime della prescrizione penale sia cambiato ( L. 5 dicembre 2005, n. 251), va, tuttavia, osservato che la prescrizione da considerare, ai fini civilistici di cui all'art. 2947 c.c., comma 3, è quella prevista alla data del fatto, mentre i principi di cui all'art. 2 c.p., attengono solo agli aspetti penali, per effetto di successioni di leggi penali nel tempo. Nella fattispecie è da escludere il reato di epidemia colposa ( artt. 438, 452 c.p.), in quanto quest'ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell'eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti, non appare conciliarsi con l'addebito di responsabilità a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati: in ogni caso, la posizione del Ministero è quella di un soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio. A ciò si aggiunga che elementi connotanti il reato di epidemia sono: a) la sua diffusività incontrollabile all'interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell'HCV e dell'HBV non si è al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti; b) l'assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella fattispecie è necessaria l'attività di emotrasfusione con sangue infetto; c) il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poichè altrimenti si verserebbe in endemia).

Va esclusa anche la configurabilità del reato di lesioni colpose plurime, stante l'impossibilità di individuare in capo al Ministero una condotta omissiva unica dalla quale scaturirebbero le lesioni sofferte dai vari danneggiati, tanto più se si tiene conto che le singole attività di omissioni di controllo e vigilanza fanno capo a diversi soggetti (persone fisiche) succedutisi nel tempo con diversi e successivi atti di autorizzazione alla commercializzazione ed al consumo di partite di sangue.

2.3. Rimane, quindi, solo la configurabilità dei reati di lesioni colpose, anche gravissime, o del reato di omicidio colposo non potendosi negare che il comportamento colposamente omissivo da parte degli organi del Ministero preposti alla farmacosorveglianza sia stata una causa, quanto meno concorrente, nella produzione dell'evento dannoso.

Sennonchè va osservato che la prescrizione decennale nell'ipotesi di configurabilità di omicidio colposo opera solo in favore di quegli attori (congiunti del contagiato) che abbiano agito in giudizio (iure proprio) per il risarcimento del danno causato dal decesso ascrivibile all'emotrasfusione (o all'assunzione di emoderivati) con sangue infetto e non per tutti gli altri attori che abbiano agito nello stesso giudizio solo per richiedere il risarcimento del danno conseguente a lesioni colpose.

2.4. Quando, invece, ricorra solo quest'ultima ipotesi (lesioni colpose) va osservato che anche la prescrizione del reato di lesioni colpose matura in cinque anni.

2.5. Infondata è la censura secondo cui non sarebbe possibile nella fattispecie un'equiparazione del termine prescrizionale civile a quello penale (nei termini di cui all'art. 2947 c.c., comma 3) non essendo il Ministero l'autore dell'illecito penale.

Infatti in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito, la previsione dell'art. 2947 c.c., comma 3, si riferisce, senza alcuna discriminazione, a tutti i possibili soggetti passivi della pretesa risarcitoria e si applica, pertanto, non solo all'azione civile esperibile contro la persona penalmente imputabile, ma anche all'azione civile diretta contro coloro che siano tenuti al risarcimento a titolo di responsabilità indiretta (Cass. 09/10/2001, n. 12357; Cass. 6/02/1989, n. 729).

2.6. Infondata è anche la censura secondo cui la corte territoriale non avrebbe valutato l'esistenza dell'elemento psicologico, pur necessario ai fini della ritenuta sussistenza dei reati di omicidio colposo (per le sole fattispecie in cui ricorra) o lesioni colpose.

E' vero che nel caso in cui l'illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, l'eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato si applica anche all'azione di risarcimento dei danni, a condizione che il giudice civile accerti "incidenter tantum" la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi e oggettivi (Cass. 28/07/2000, n. 9928; Cass. 10/06/1999, n. 5701).

Sennonchè nella fattispecie la sentenza impugnata (pag. 16) riscontra l'elemento colposo dell'Amministrazione (e, quindi, dei suoi funzionari) nel non adottare gli accorgimenti utili a scongiurare il contagio di tali note patologie effettuando determinati trattamenti ed analisi del sangue acquisito.

2.7. Inammissibile è la censura secondo cui l'Amministrazione avrebbe agito in presenza delle scriminanti dell'attività medico-chirurgica e del consenso dell'avente diritto e che di tanto avrebbe dovuto tener conto il giudice di appello.

A parte ogni altra considerazione, va rilevato che il ricorrente non ha indicato se e quando tale questione sia stata posta all'esame del Giudice di merito, non risultando sul punto alcunchè nella sentenza impugnata.

Qualora una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al Giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 21/02/2006, n. 3664; Cass. 22/05/2006, n. 11922; Cass. 19/05/2006, n. 11874; Cass. 11/01/2006, n. 230).

3.1. Il punto di maggior rilievo è l'individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione in ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale è quello relativo a malattia da contagio.

Come è noto, in base all'art. 2935 c.c., norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L'art. 2947 c.c., comma 1, aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il “fatto si è verificato”.

Nell'evoluzione giurisprudenziale questa Corte (Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha affrontato il significato da attribuirsi all'espressione “verificarsi del danno”, specificando che il danno si manifesta all'esterno quando diviene “oggettivamente percepibile e riconoscibile” anche in relazione alla sua rilevanza giuridica.

La Corte, successivamente, ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma dell'art. 2947 c.c., comma 1, non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all'altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche. Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non può iniziare a decorrere, poichè la malattia, sofferta come tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sè a concretizzare il "fatto" che l'art. 2947 c.c., comma 1, individua quale esordio della prescrizione (Cass. 21/02/2003, n .2645; Cass. 05/07/2004, n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493).

Viene applicato, unitamente al principio della “conoscibilità del danno”, quello della “rapportabilità causale”. 3.2. Ritengono queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento. L'individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell'”esteriorizzazione del danno” può, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l'inattività (incolpevole) della vittima rispetto all'esercizio dei suoi diritti.

E' quindi del tutto evidente come l'approccio all'individuazione del dies a quo venga a spostarsi da una mera disamina dell'evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o dell'inadempimento - e cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno “occulto” a quello che si manifesta nelle sue componenti essenziali ed irreversibili - ad una rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l'instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest'ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a ciò tenuto (ciò è pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema di medicai malpractice).

3.3. Va specificato che il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis, non apre la strada ad una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi, l'uno interno e l'altro esterno al soggetto, e cioè da un lato al parametro dell'ordinaria diligenza, dall'altro al livello di conoscenze scientifiche dell'epoca, comunque entrambi verificabili dal Giudice senza scivolare verso un'indagine di tipo psicologico. In particolare, per quanto riguarda l'elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l'ordinaria diligenza dell'uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si è rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa.

3.4. I principi, quindi, che vanno affermati, sono i seguenti:

"Anche allorchè sia proposta domanda di condanna generica al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, il convenuto, che assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto, ha l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di decadenza e non nel successivo giudizio di liquidazione del danno; il Giudice di primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che integra una preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del diritto azionato".

"Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell'art. 2935 c.c., e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche". 4. Il problema che si pone, anche con riferimento al giudizio in esame, è la valenza del responso delle Commissioni mediche ospedaliere, istituite presso ospedali militari, di cui alla L. n. 210 del 1992, art. 4, ai fini della decorrenza della prescrizione.

In linea generale non può ritenersi che solo con la comunicazione di tale responso inizi a decorrere la prescrizione, come pure sostenuto da parte della giurisprudenza di merito.

Tale tesi non pare convincente, per diversi ordini di motivi: perchè offre effettivamente il destro al creditore per dilatare a suo piacere il corso della prescrizione; perchè potrebbe portare ad affermare che il dies a quo inizi anche a decorrere a causa già iniziata, negando l'effetto interruttivo connaturato alla proposizione dell'azione; perchè rischia di enfatizzare il ruolo della consulenza medico-legale (effettuata peraltro in riferimento al diverso procedimento di liquidazione dell'indennizzo). Inoltre è illogico ritenere che il decorso del termine di prescrizione possa iniziare dopo che la parte si è comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo stesso fatto lesivo, pur nella diversità tra diritto all'indennizzo e diritto al pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto dannoso.

Tenuto conto che l'indennizzo è dovuto solo in presenza di danni irreversibili da vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, appare ragionevole ipotizzare che dal momento della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche.

5. Ne consegue che nella fattispecie sono fondate le censure relative al mancato accertamento della prescrizione in relazione a ciascuna posizione soggettiva anche in sede di giudizio relativo solo a domanda di condanna generica, alla ritenuta decorrenza decennale della prescrizione del diritto al risarcimento del danno perchè il fatto costituirebbe un'ipotesi di reato di epidemia colposa o lesioni personali plurime, (mentre la prescrizione è decennale in relazione a domande relative a risarcimento del danno da decesso, proposte da congiunti iure proprio, in cui è ipotizzabile un omicidio colposo); è infondata la censura, per violazione di norme di diritto, relativamente al dies a quo della decorrenza della prescrizione, avendo il giudice di merito fatto decorrere la stessa dalla data in cui il danneggiato ha percepito (o avrebbe dovuto percepire) non solo la malattia, ma anche che essa era conseguenza della trasfusione con sangue infetto; è fondata la censura di vizio motivazionale della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che il danneggiato avesse avuto conoscenza del danno, anche sotto il profilo eziologico, ai fini dell'exordium praescriptionis solo con il responso della commissione medico ospedaliera.

6. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056 c.c., nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia a norma dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Il Ministero lamenta la violazione di legge in ordine all'accertamento del nesso causale e dell'elemento psicologico della colpa in capo al Ministero.

In particolare il ricorrente assume che i virus in questione e le tecniche di rilevazione sarebbero stati individuati solo nel corso degli anni '80, per cui, precedentemente a tale data, non poteva ritenersi sussistente, nè un nesso causale tra la pretesa attività omissiva del Ministero e l'evento del contagio da emotrasfusione o da assunzione di emoderivati nè l'elemento soggettivo; che è errato e non motivato l'assunto apodittico secondo il quale il Ministero già dagli anni 70 sarebbe stato in grado di conoscere ed individuare tali virus;

che è errato l'assunto secondo cui, divenuto conoscibile il primo virus (epatite B), il Ministero sarebbe tenuto al risarcimento anche per gli altri due (HIV ed epatite C), anche se ancora non conosciuti alla data dell'emotrasfusione o dell'assunzione degli emoderivati, sulla base del principio, affermato dalla sentenza impugnata, che in tema di responsabilità extracontrattuale si risponde anche dei danni non prevedibili.

Infine il Ministero, sulla base della normativa all'epoca vigente, nega che su di esso gravasse un obbligo di vigilanza e controllo tale da renderlo responsabile dei singoli casi di contagio, avendo egli solo un dovere di vigilanza complessiva e non specifica sul singolo caso.

7.1. Il motivo è infondato.

Va anzitutto esaminata la normativa che regolava l'attività del Ministero in tema di emotrasfusione e di emoderivati all'epoca dei fatti.

La L. n. 592 del 1967, (art. 1) attribuisce al Ministero le direttive tecniche per l'organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione, e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita la vigilanza, nonchè (art. 21) il compito di autorizzare l'importazione e l'esportazione di sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico.

Il D.P.R. n. 1256 del 1971, contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (artt. 2, 3, 103, 112).

La L. n. 519 del 1973, attribuisce all'Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della salute pubblica.

La L. 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio sanitario Nazionale conserva al Ministero della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati (art. 6, lett. b, c), mentre l'art. 4, n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale.

Il D.L. n. 443 del 1987, stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla ed. "farmacosorveglianza" da parte del Ministero della Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui prodotti in commercio.

Ne consegue che, anche prima dell'entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L'omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi.

7.2. Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, va osservato che, come statuito da Corte Cost. 22.6.2000 n. 226 e 18.4 1996 n. 118, la menomazione della salute derivante da trattamenti sanitari può determinare le seguenti situazioni: a) il diritto al risarcimento pieno del danno, secondo la previsione dell'art. 2043 c.c., in caso di comportamenti colpevoli; b) il diritto a un equo indennizzo, discendente dall'ari. 32 della Costituzione in collegamento con l'art. 2, ove il danno, non derivante da fatto illecito, sia conseguenza dell'adempimento di un obbligo legale; c) il diritto, ove ne sussistano i presupposti a norma degli artt. 38 e 2 Cost., a misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore, nell'ambito dell'esercizio costituzionalmente legittimo dei suoi poteri discrezionali.

In quest'ultima ipotesi si inquadra la disciplina apprestata dalla L. n. 210 del 1992, che opera su un piano diverso da quello in cui si colloca quella civilistica in tema di risarcimento del danno, compreso il cosiddetto danno biologico.

Per quanto qui interessa, al fine di evidenziare la distanza che separa il risarcimento del danno dall'indennità prevista dalla legge predetta, basta rilevare che la responsabilità civile presuppone un rapporto tra fatto illecito e danno risarcibile e configura quest'ultimo, quanto alla sua entità, in relazione alle singole fattispecie concrete, valutabili caso per caso dal giudice, mentre il diritto all'indennità sorge per il sol fatto del danno irreversibile derivante da infezione post-trafusionale, in una misura prefissata dalla legge. Ciò comporta che vada condiviso l'orientamento favorevole della più avvertita dottrina al concorso tra il diritto all'equo indennizzo di cui alla L. n. 210 del 1992, ed il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., per cui nel caso in cui ricorrano gli estremi di una responsabilità civile per colpa la presenza della L. n. 210 del 1992, come modificata dalla L. n. 238 del 1997, non ha escluso in alcun modo che il privato possa chiedere e che il Giudice possa procedere alla ricerca della responsabilità aquiliana, senza che esista automatismo tra le due figure (mentre non è oggetto di questo ricorso il diverso problema se si tratti di diritti alternativi, ovvero cumulabili ed - in caso positivo- in quali termini).

8.1. Inquadrata, quindi, la responsabilità del Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., da omessa vigilanza, va ora esaminata la questione del nesso causale in siffatto tipo di responsabilità.

Osserva preliminarmente questa Corte che l'insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell'elaborazione penalistica in tema di nesso causale è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anzichè al "fatto illecito", divenuto "fatto dannoso".

In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto tale.

E tuttavia un "fatto" è pur sempre necessario perchè la responsabilità sorga, giacchè l'imputazione del danno presuppone l'esistenza di una delle fattispecie normative di cui all'art. 2043 c.c. e segg., le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere.

Il "danno" rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica.

Il danno oggetto dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l'evento lesivo).

Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria.

8.2. Proprio in conseguenza di ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria.

A questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 c.c., (richiamato dall'art. 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del fatto lesivo (ed. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili.

Secondo l'opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perchè possa configurarsi, a monte, una responsabilità "strutturale" (Haftungsbegrundende Kausalitat) e, dall'altro, il nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitat).

Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nel primo e nell'art. 1227 c.c., comma 2: il comma 1, attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell'evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento- danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni. Nel macrosistema civilistico l'unico profilo dedicato al nesso eziologico, è previsto dall'art. 2043 c.c., dove l'imputaizione del "fatto doloso o colposo" è addebitata a chi "cagiona ad altri un danno ingiusto", o, come afferma l'art. 1382, Code Napoleon "qui cause au autrui un dommage".

Un'analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di responsabilità ed. contrattuale o da inadempimento, perchè in tal caso il soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E questo è uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimità partendo dall'ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il "risarcimento del danno", cui è dedicato l'art. 1223 c.c., con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l'inadempimento dell'obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.

Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtù del rinvio operato dall'art. 2056 c.c., è composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di responsabilità da inadempimento, anche dalla disposizione dell'art. 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio ricavabile dall'art. 1221 c.c., che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta.

8.3. Ai fini della causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ritengono che un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).

Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell'art. 41 c.p., in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti,ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).

Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).

8.4. Quindi, per la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operandosi una "prognosi postuma", nel senso che si deve accertare se, al momento in cui è avvenuta l'azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza. La teoria della regolarità causale, pur essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell'uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poichè non si tratta di accertare l'elemento soggettivo, ma il nesso causale).

In altri termini ciò che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità dell'evento.

Il principio della regolarità causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad iscriversi entro l'elemento soggettivo (la colpevolezza) dell'illecito.

Inoltre se l'accertamento della prevedibilità dell'evento, ai fini della regolarità causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell'accertamento positivo del nesso causale (con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità oggettiva, potrebbe giovarsi l'attore, sul quale grava l'onere della prova del nesso causale).

8.5. Nell'imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789): rilievo che si traduce a volte nell'affermazione dell'esigenza, per l'imputazione della responsabilità, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.

E' questa l'ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione della regola di cui all'art. 40 c.p., comma 2.

Poichè l'omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante l'esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell'evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla mera valutazione della materialità fattuale, bensì postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L'individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l'apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l'omissione del comportamento sul piano causale.

La causalità nell'omissione non può essere di ordine strettamente materiale, poichè ex nihilo nihil fit.

Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell'omissione e non la causalità normativa (basata sull'equiparazione disposta dall'art. 40 c.p.) fanno coincidere l'omissione con una condizione negativa perchè l'evento potesse realizzarsi.

La causalità è tuttavia accettabile attraverso un giudizio ipotetico: l'azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l'evento? In altri termini non può riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento prospettato: la responsabilità non sorge non perchè non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l'omissione di un comportamento dovuto è di per sè un comportamento antigiuridico), ma perchè quell'omissione non è causa del danno lamentato.

Il Giudice pertanto è tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi.

L'accertamento del rapporto di causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale" che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.

8.6. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p., e dalla "regolarità causale", in assenza di altre norme nell'ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.

Tanto vale certamente allorchè all'inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all'art. 2043 c.c..

Nè può costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e funzionali tra accertamento dell'illecito civile ed accertamento dell'illecito penale, essendo il primo fondato sull'atipicità dell'illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio.

La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l'atipicità dell'illecito.

Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all'art. 1223 c.c.), per cui un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame "causale" tra responsabile e danno è tutto normativo.

8.7. Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l'applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., temperati dalla " regolarità causale", ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile.

Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. Di questo si vedrà più ampiamente in seguito.

E' vero che la responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell'autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilità civile in un'assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio.

L'atipicità dell'illecito attiene all'evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l'elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione.

E' vero, altresì, che, contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessità del nesso di causalità di fatto e dall'altra non modifica le regole giuridico-logiche che presiedono all'esistenza del rapporto eziologico.

Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva. E' esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un'allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente è autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e come è previsto dalla clausola generale di cui all'art. 2043 c.c., secondo il principio classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa: "ohne schuld keine haftung), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l'ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell'illecito, al principio di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente, sicchè il verificarsi del danno discende da un'opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.

Sennonchè il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo nell'applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della causalità. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalità elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o l'ingiustizia del danno.

8.8. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all'infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilità per colpa quest'ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest'ultima in funzione della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilità.

Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica "da fare responsabile". Ciò perchè nella fattispecie di responsabilità oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta, bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta risolve mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno.

8.9. Sennonchè detto ciò, ai fini dell'individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio di imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra l'evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es. art. 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052 c.c., art. 2054 c.c., comma 4), posti all'inizio della serie causale.

Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale "concatenazione causale" tra la condotta di altri e l'evento ovvero tra il fatto di altra natura e l'evento (di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilità oggettiva).

In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., con la particolarità che in questo caso il nesso eziologico andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l'elemento individuato dal criterio di imputazione e l'evento dannoso.

In altri termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell'agente, in tema di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l'evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell'allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalità nell'illecito civile.

8.10. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico-giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l'identità di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedansi: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche la Corte di Giustizia CE è indirizzata ad accettare che la causalità non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se "appaia sufficientemente probabile" che l'intesa tra compagnie assicurative possa avere un'influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che "occorre postulare le varie concatenazioni causa-effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili").

Detto standard di "certezza probabilistica" in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni).

8.11. Le considerazioni sopra esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalità, portano ad enunciare il seguente principio di diritto per la decisione del caso concreto, attinente alla responsabilità del Ministero della Sanità (oggi della Salute) da omessa vigilanza, correttamente applicato dalla sentenza impugnata:

"Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinchè fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standars di esclusione di rischi, il giudice, accertata l'omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all'epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata - infine - l'esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell'evento". 9.1. Dal principio sopra esposto in tema di nesso causale da comportamento omissivo, emerge anche il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero. Questa Corte, con sentenza 31/05/2005, n. 11609, osservava che, finchè non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perchè l'evento infettivo da detti virus era già astrattamente inverosimile, in quanto addirittura anche astrattamente sconosciuto, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l'evento lesivo, in quanto all'interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produsse l'omissione causante e non successivamente, non apparivano del tutte inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l'attività omessa. La corte di legittimità, quindi, riteneva esente da vizi logici la sentenza della Corte di appello, che aveva ritenuto di delimitare la responsabilità del Ministero a decorrere dal 1978 per l'HBC (epatite B), dal 1985 per l'HIV e dal 1988 per l'HCV (epatite C), poichè solo in tali rispettive date erano stati conosciuti dalla scienza mondiale rispettivamente i virus ed i tests di identificazione.

9.2. Ritengono, invece, queste S.U. (in conformità a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina) che non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioè la lesione dell'integrità fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico è il nesso causale: trasfusione con sangue infetto - contagio infettivo - lesione dell'integrità.

Pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B (la cui individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell'esclusiva competenza del giudice di merito) sussiste la responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell'integrità fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge.

Di fronte ad obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e controllo imposti dalla legge, deve inoltre sottolinearsi che si arresta la discrezionalità amministrativa, ove invocata per giustificare le scelte operate nel peculiare settore della plasmaferesi. Il dovere del Ministero di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula un dovere particolarmente pregnante di diligenza nell'impiego delle misure necessarie a verificarne la sicurezza, che comprende il dovere di adoperarsi per evitare o ridurre un rischio che è antico quanto la necessità della trasfusione.

9.3. E' infondata anche la censura relativa alla mancato accertamento dell'elemento psicologico colposo del Ministero. Avendo ritenuto il giudice di merito che il Ministero aveva l'obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non presentassero alterazioni delle transaminasi, l'omissione di tale condotta, integrando la violazione di un obbligo specifico, integra la colpa.

10. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2059 c.c., nonchè l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Assume il ricorrente che erratamente la sentenza impugnata ha riconosciuto agli attori il danno morale, mentre per il combinato disposto dell'art. 2059 c.c., e art. 185 c.p., sarebbe stato necessario individuare una persona fisica che potesse rispondere del reato e che la stessa fosse legata al Ministero da rapporto di dipendenza.

11.1. Il motivo è infondato.

Anzitutto va osservato che l'azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a rispondere dell'operato dell'autore del fatto che integra un'ipotesi di reato, è ammessa - tanto per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali - anche quando rimanga ignoto l'autore del fatto che integra un'ipotesi di reato, sempre che sia certa l'appartenenza di quest'ultimo ad una cerchia di persone legate da un rapporto organico o di dipendenza con il soggetto che di quell'attività deve rispondere (Cass. 10/02/1999, n. 1135; Cass. 21/11/1995, n. 12023).

Ne consegue che, una volta che il giudice di merito aveva accertato che il Ministero non aveva compiuto l'attività di farmacosorveglianza, cui era normativamente tenuto, tale omissione non poteva che essere addebitata che ad uno o più funzionari preposti a tale attività, risultando indifferente che poi gli stessi fossero rimasti ignoti.

11.2. In ogni caso l'infondatezza del motivo discende anche dal nuovo orientamento interpretativo dell'art. 2059 c.c., adottato da questa Corte con le sentenze 31.5.2003 n. 8827 ed 8828, ed ormai consolidato (cfr. Cass. 27.6.2007, n. 14846) secondo cui il danno non patrimoniale conseguente all'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacchè il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.

12. Pertanto va accolto parzialmente il primo motivo di ricorso e vanno rigettati il secondo ed il terzo. Va cassata, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza e va rinviata la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma, che si uniformerà ai principi di diritto esposti al punto 3.4.

Esistono giusti motivi per compensare per intero le spese di questo giudizio di cassazione tra A.C. ed il ricorrente Ministero.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero della Salute nei confronti di A.C. e compensa tra gli stessi le spese di questo giudizio di Cassazione. Quanto agli altri, accoglie, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso e rigetta i restanti motivi. Cassa, in relazione al motivo accolto, l'impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007.


Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2008